Consumi e relazioni nell’era della condivisione
Fonte: www.nova.ilsole24ore.com
Nuovi lavori, ambiente e coesione sociale: quali sono gli effetti introdotti dai paradigmi collaborativi
Attorno alla Sagrada Familia è pieno di puntini rossi: sulla mappa indicano gli annunci di Airbnb per interi appartamenti, circa il 58% ben cinque punti sopra la media di Barcellona, secondo il sito InsideAirbnb che promette di svelare i dati che il colosso della sharing economy «non vorrebbe che vedessimo». Perché per il fondatore di InsideAirbnb, il giornalista Murray Cox, i dati rivelano quanto l’arrivo di Airbnb stia stravolgendo il volto della città, quanto gli affitti siano in molti casi professionali e cambino il volto di interi quartieri e città (per l’Italia è disponibile la mappa di Venezia e del Trentino). Con effetti sia sul mercato immobiliare sia sulle identità sociali, accentuando la gentrificazione. Quello che Murray Cox però non dice è che i prezzi degli appartamenti rendono il turismo di Barcellona e di altre città molto competitivo e accessibile e che in alcuni casi, come è successo a Milano con Expo2015, vanno a integrare l’offerta ricettiva tradizionale. Comunque la si pensi, nessun caso come Airbnb mostra i contrasti di interessi che pone la sharing economy e gli impatti che ha sulla società tutta. Sharing economy che si sta sempre più polarizzando: da un lato le grandi piattaforme di economy on demand stile Uber che di fatto intermediano il servizio grazie all’algoritmo e si spingono fino ai confini della gig economy (vedi pagina seguente) e dall’altro quelle che favoriscono l’incontro tra pari, rispondendo a quei bisogni che sono stati fondativi della sharing, cioè la sostenibilità, gli scambi e le relazioni sociali. Come e in che misura questo fenomeno sta cambiando la società? Quale impatto sta creando?
Viene in aiuto la mappatura italiana, che per il terzo anno consecutivo racconta quante sono le realtà più significative, curata da Collaboriamo e Trailab Università Cattolica (presentata a Sharitaly a Milano). Ebbene la sharing italiana continua a crescere, passando dalle 118 piattaforme dell’anno scorso alle 138 di quest’anno (che salgono a 208 se si contano anche quelle di crowdfunding).
I settori più vivaci sono quelli dei trasporti e dei servizi alla persona, entrambi con impatti sociali significativi. I primi contano ben 25 piattaforme, tra car pooling, ridesharing, trasporto pacchi, car sharing p2p (ma non il car sharing intermediato). I servizi alla persona censiti sono 23 tra cui dog sitter, babysitting, lavoretti, banche del tempo ecc. Crescono anche gli utenti: l’anno scorso il 20% delle piattaforme raggiungeva più di 30mila utenti, ora sono il 31 per cento. L’indagine prende in esame non solo le piattaforme italiane ma anche quelle straniere con una sede in Italia, come Airbnb. Tanto le proposte sono varie e gli utenti curiosi, quanto i dati economici restano precari: la maggior parte delle piattaforme ha fatto investimenti fino a 50mila euro e ha meno di 500 transazioni in un mese, dato significativo visto che il modello di business si basa proprio sulla percentuale del transato.
Come interpretare questi dati? Quanto incide la fragilità italiana dell’ecosistema startup e quanto il tradimento della missione iniziale della sharing economy?
Secondo un’indagine di Kantar Tns il 27% degli intervistati italiani (utenti internet) nel 2016 ha usato servizi sharing (erano il 13% nel 2013), la quota sale al 53% se esplicitiamo tutte le possibilità oggi disponibili tra i diversi servizi di sharing. «Sintomo che c’è ancora una consapevolezza limitata del concetto di sharing – spiega Federico Capeci, ceo di Kantar Tns – E se vediamo le motivazioni all’utilizzo del servizio, le principali sono la facilità di accesso e la convenienza o gratuità. Insomma, la sharing economy è sempre più economy e meno sharing, intesa come piattaforma collaborativa tra individui. Fenomeno acuito dall’ingresso nel mercato delle multinazionali dello sharing, anche nel nostro Paese da qualche tempo».
Se si plana sul settore a volo d’uccello la differenza di massa critica tra le grandi piattaforme di matching e le più piccole che incorporano valori di relazione e sociali è abissale. Ma se si scende addentro il fenomeno, emergono le sfumature. «Siamo ancora agli inizi – spiega Marta Mainieri di Collaboriamo- e non dimentichiamoci che la crescita delle piattaforme internazionali è stata drogata dai fondi di investimento americani. La narrazione iniziale basata sulla sostenibilità e le relazioni era figlia della crisi del 2007-2008 e si è un po’ persa nelle sue promesse. Ma è altrettanto evidente che si stanno diffondendo processi collaborativi in tutti i settori, pensiamo all’abitare, alla finanza con block chain, alla mobilità e al welfare. E il modello di business include la relazione». Per esempio, la piattaforma di carpooling BlaBlaCar, che vive sul transato, è in crescita, non ammette guidatori professionisti.«Eppure si è visto che il valore della relazione è forte nella community, come del resto anche la fiducia» puntualizza Mainieri.
Insomma la sharing, dopo gli anni degli esordi, sembra passata a una fase nuova dove i processi collaborativi peer to peer permeano i modi di fare impresa, che incorporano sempre più i paradigmi come la sostenibilità, la relazione costruita sulla fiducia reciproca, l’accesso e il noleggio (anziché il possesso). E che, di volta in volta, oscillano da modelli tradizionali di mercato a nuovi modelli sostenibili economicamente ma che tendono a includere il valore sociale.
«È chiaro che l’impatto maggiore sia sul mondo del lavoro. Oggi ci si sta ponendo il problema di come accrescere l’empowerment dei peer – spiega Simone Cicero – OuiShare Connector e creatore del Platform Design Toolkit – Ci sono diversi modelli di piattaforme collaborative. Accanto al modello corporate stanno sorgendo modelli di piattaforma cooperativi in ogni ambito. Si tratta di pionieri, come Ecsa, Stocksy o Fair Mondo, Loomio. Tutte piattaforme che vogliono generare esternalità positive, per il lavoro, l’ambiente e le relazioni». Un fenomeno su cui si sta concentrando l’Istitute of the future (Iftf) di Palo Alto dove a fine novembre Cicero raggiungerà sviluppatori, imprenditori sociali, esperti di policy in una due giorni per confrontarsi sulle sfide che pone l’economia digitale e arrivare poi a progettare prototipi reali. L’intento è di “impadronirsi dell’algoritmo”. Ovvero essere consapevoli che come si progettano le piattaforme condiziona il modo in cui queste organizzano i lavoratori e creano valore.
alessia.maccaferri@ilsole24ore.com
Riflessioni sulla sharing economy di Armando Lunetta
Abbiamo guardato tutti con grande interesse la nascita delle reti digitali che hanno rivoluzionato la nostra vita, il nostro modo di pensare, di agire, di vivere la quotidianità. Ormai non possiamo più tornare indietro, le piattaforme digitali hanno “drogato” la nostra vita. E poi il successo di questa grande invenzione si basa sulla gratuità dei servizi offerti, gratuità che paghiamo con il fatto di essere continuamente “sorvegliati” dai monopolisti dei service provider. Grazie a tutto questo è nata la sharing economy o l’economia della condivisione che come spiega l’articolo di Alessia Maccaferri su Nova 24 del Sole 24 ore, s’interroga sugli effetti introdotti dai paradigmi collaborativi. Ma poi questi paradigmi sono veramente collaborativi? Possono essere annoverati, come qualcuno all’inizio pensava, nei processi di economia solidale?
La rivoluzione digitale distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei – ci ammonosce Jaron Lanier – nel suo ultimo libro “La dignità ai tempi di Internet”.
Ci rallegriamo di scoprire che sul Web tutto è «gratis» e «open», o sta per diventarlo, ma nel frattempo l’economia dell’informazione concentra sempre più potere e ricchezza nelle mani di pochi. Mentre celebriamo le virtù democratiche di Internet, consegniamo il futuro ai colossi che controllano i server centrali e traggono immensi profitti.
Facciamo qualche riflessione: Aibnb la società californiana leader nel mercato degli affitti brevi tra privati, presente in 191 paesi nel mondo che gestiste 2,5 milioni di annunci, valutata 30 miliardi di dollari, ha 600 dipendenti a fronte dei 300 mila delle catene alberghiere che gestiscono la stessa quantità di posti letto.
L’azienda fotografica Kodak all’apice del suo successo impiegava più di 140 mila persone e valeva 28 miliardi di dollari. Oggi la Kodak è fallita, il nuovo protagonista dell’economia digitale è diventato Instagram, una piattaforma digitale inventata dal giovane Kevin Systrom e venduta a Facebook per un miliardo di dollari e impiega solo 13 persone.
Uber, la società di San Francisco che fornisce servizi di trasporto automobilistico in alternativa ai taxi, con i suoi 10 miliardi di fatturato e una rete di 160 mila autisti ha 550 dipendenti in tutto il mondo.
Risulta allora evidente che questa nuova forma di economia risulta sempre più condivisa ma sempre meno solidale e il prezzo che viene pagato dalla collettività alla fine sarà molto alto.
Peccato – sostiene Nicola Cavalli in un articolo comparso su Left – che le imprese digitali vivano ancora oggi in un mondo di irresponsabilità fiscale che sottrae agli Stati potenziali entrate e restringe così gli spazi per una redistribuzione attraverso reti di protezione sociale. Dietro la patina dell’innovazione tecnologica si nascondono dunque una serie di rapporti che si possono studiare con categorie antiche: un mix di alienazione, sfruttamento del lavoro, sistematica elusione delle regole. In quanto tale, la sharing economy va normata e riconciliata con un principio di interesse pubblico, al di là delle difese corporative che, per la logica dello sviluppo tecnologico, sono altrimenti destinate a mostrare la corda.
Nell’attuale scenario economico, in presenza di un’irrimediabile crisi delle economie occidentali, il bisogno ed il ricorso ai principi di economia solidale acquista nuovo valore, soprattutto nell’ottica di un cambiamento radicale di mentalità e di prospettive, che potrebbero rendere interessanti i grandi mutamenti che ci aspettano.
Nascono su questa spinta le reti di economia solidale, i distretti, l‘associazionismo orientato alla persona, alle relazioni, alla cooperazione, si sviluppano dal basso nuovi bisogni, nuove domande di socialità, di solidarietà e di sostenibilità. Un esempio arriva dalle Banche del Tempo, una banca in cui non viene depositato denaro ma tempo da scambiare: tu fai una cosa per me e io faccio una cosa per te all’insegna della solidarietà, del dono e dell’amicizia. L’elemento distintivo di queste associazioni di promozione sociale è lo scambio di azioni, di servizi e di saperi, tra i soci e correntisti le cui competenze vengono messe a disposizione, secondo il principio della reciprocità, di chi può averne bisogno, per cui tutti sanno fare qualche cosa e chiunque può sentirsi utile. Per pagare non utilizzi denaro ma soltanto il tuo tempo. Il nuovo modello di economia della relazione si diffonde dal basso come risposta ad una società competitiva, individualista e nichilista, e si guarda alle Banche del Tempo come ad un luogo di scambio, di generosità e di aiuto per le difficoltà sociali ed economiche di tanta gente, come soluzione ai piccoli problemi quotidiani, alla solitudine e all’inclusione sociale.